In una settimana è stato approvato il Piano strategico nazionale del biologico e c’è stato il via libera dalle Regioni al Piano olivicolo nazionale. Come giudica questi due provvedimenti?
In tutta sincerità temo che si ridurranno ai soliti slogan a cui l’esecutivo e il ministro Martina ci hanno abituato in questi oltre due anni di non governo. Con riferimento al Piano strategico nazionale del biologico, il copione è il medesimo utilizzato nel Medioevo per incantare gli allocchi. Solo che non si usa più il latino, ma si sprecano termini anglofoni come paper-less o green public procurement. È il latinorum di manzoniana memoria. La verità è che l’Italia non perde l’occasione di confermare la propria pochezza a livello europeo, dove si sta per approvare un regolamento della materia estremamente penalizzante per i produttori di biologico. Ma su questo si fa finta di nulla, perché è molto meglio sollevare il fumo su un provvedimento che dovrà in ogni caso seguire i dettami dell’Ue, in quanto fonte giuridicamente superiore. Rispetto al Piano olivicolo nazionale si annunciano azioni per l’internazionalizzazione quando la produzione Made in Italy non è sufficiente in termini quantitativi. Inoltre il Mipaaf ha spinto per l’approvazione del Piano olivicolo solo con l’obiettivo di distogliere l’attenzione sul vero problema, che riguarda l’importazione di olio dall’Africa, il falso Made in Italy nel settore, l’ormai consolidata proprietà dei grandi marchi saldamente in mano spagnola, l’allarme sollevato qualche settimana fa da autorevoli quotidiani americani circa la perseveranza nel taroccare l’extravergine italiano da parte dei produttori.
Da una parte ci sono i dati Istat sul Pil che vedono il settore agricolo registrare la maggiore crescita anche su base annuale. Dall’altra i preoccupanti segnali di deflazione che vengono dalle campagne italiane a causa del crollo dei prezzi pagati ai produttori. Dove sta la verità?
I dati completi del settore agricolo e l’impatto sul Pil relativi all’anno solare 2015 non si sono ancora visti nella loro completezza e il fatto che ciò non sia ancora avvenuto, nonostante siamo alla fine di marzo, fa pensare e lascio a voi trarre le conclusioni. Quello che è certo è che vi sono diversi comparti in cui gli agricoltori rischiano seriamente di chiudere attività che hanno alle spalle generazioni, nel più totale disinteresse del governo. La zootecnia è ridotta al lumicino, in questi giorni le industrie di trasformazione stanno inviando proposte irricevibili, con prezzi al di sotto dei costi di produzione. Abbiamo perso sovranità alimentare e non riusciamo a negoziare efficacemente con l’Unione europea. L’aspetto ancora più grave è che manca totalmente una visione strategica del settore; vige la più totale subalternità dell’agricoltura all’industria, e i regolamenti che hanno tolto l’obbligo di indicare in etichetta lo stabilimento di trasformazione sono emblematici; si ostacolano le Regioni nel confronto diretto con Bruxelles, senza avere alcuna alternativa concreta per risollevare il comparto.
Quanto pesano sul nostro sistema agricolo l’embargo alla Russia e gli accordi con Marocco e Tunisia per esportare a dazio zero prodotti da tavola nei territori dell’Ue?
Pesano molto. Inutile lanciare delle cifre, perché il conto è aperto. Aumenta ogni giorno. Parliamo di cifre superiori ai 5 miliardi, alle quali dobbiamo aggiungere altri elementi. Non possiamo pensare che i mercati, la fiducia dei consumatori esteri, l’educazione alla qualità delle produzioni Made in Italy siano un rubinetto che si apre e si chiude abrogando sanzioni che di fatto sono state imposte dagli Stati Uniti, paese che al contrario ha guadagnato da questa fase di muro contro muro fra Ue e Russia. Abbiamo perso molto di più che un canale commerciale sicuro. Abbiamo creato eccesso di offerta in Europa e non sarà facile ripartire sul mercato russo, dove la fornitura europea è già stata soppiantata o da altri paesi o da una produzione nazionale che Mosca ha saputo rilanciare in diversi settori. Allo stesso tempo, mentre abbiamo interrotto i rapporti con la Federazione Russa, abbiamo concesso via libera a paesi che producono con standard inferiori ai nostri. E non parlo solo di qualità, che forse è l’aspetto meno preoccupante. Mi riferisco al fatto che in alcuni paesi dove si può esportare in modo vantaggioso in Europa, talvolta non si rispettano gli stessi parametri nell’utilizzo dei mezzi tecnici, del benessere animale, della tutela del lavoro. Questo è inaccettabile.
Gli agricoltori del Nord e del Sud sono sullo stesso treno o viaggiano su binari differenti?
So che anche al sud vi sono grandi difficoltà di redditività e che le aziende agricole soffrono. Forse le dinamiche sono differenti, ma i risultati sono altrettanto drammatici, perché un’impresa agricola che chiude significa una famiglia in crisi, un mancato presidio del territorio. Però non posso fingere che le imprese agricole del Nord e del sud viaggino sugli stessi binari, quando al Nord i fondi messi a disposizione per lo Sviluppo rurale vengono utilizzati nella loro interezza, mentre al sud ogni anno si assiste alla solita corsa per collocare le risorse, senza peraltro quasi mai riuscirci. Si tratta di fondi pubblici, per i quali servirebbe maggiore rispetto e una diversa strategia, affinché venisse garantita maggiore disponibilità a quelle Regioni che finalizzano al meglio le risorse. In questo caso sì che avremmo bisogno di una legge nazionale chiara, che affermasse il principio della distribuzione dei fondi a quelle realtà che meglio le utilizzano. Fare il contrario, cioè mettere dei paletti nazionali affinché le Regioni virtuose del Nord siano costrette a non sostenere la crescita delle proprie aziende, è la vera follia, ma è quello che un governo che viaggia per slogan mira a fare.